54 persone, tra cui molte donne, che erano riuscite ad attraversare illegalmente il confine tra la Birmania e la Thailandia, sono morte soffocate nel cassone del camion che le trasportava, molti dei 67 superstiti sono ricoverati in gravi condizioni. Ognuno di loro aveva pagato l’equivalente di 160 dollari nella speranza di arrivare a Phuket, la località turistica a sud di Ranong, dove attualmente lavorano illegalmente decine di migliaia di birmani. I quotidiani italiani hanno parlato di “ennesima tragedia dell’immigrazione”, di “fatalità”. Ma il fato, il destino tragico e crudele ha davvero poco a che fare con episodi di questo genere. Nel tritacarne dell’attuale mondo del lavoro vengono consumate le vite non solo di chi “un posto” ce l’ha già, ma anche di chi da quel mondo è escluso, secondo le stesse logiche. Nel novero degli omicidi bianchi vanno senza dubbio inserite le morti di tutti quelli che, alla ricerca di un lavoro, lasciano le loro città, vengono reclusi nei campi di detenzione alle porte del civile occidente, finiscono imprigionati nei cpt e rispediti a casa e che spesso nemmeno riescono ad arrivare nella terra promessa in cui potranno farsi sfruttare e ammazzare di lavoro: muoiono prima, in mare o soffocati nel cassone di un camion.